Nuova normativa sul "made in", i primi orientamenti della Corte di Cassazione

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La Corte di Cassazione fornisce i primi, attesissimi, chiarimenti sulla nuova normativa sul made in Italy introdotta dal d.l. 135/2009 (convertito in legge n. 166/2009), una materia ambigua, caratterizzata da continue stratificazioni normative che stanno generando non poco disorientamento sia presso gli operatori che gli uffici doganali italiani.

Le precisazioni in oggetto, introdotte con la sentenza n. 19746 del 25 maggio 2010, depositata il 25 maggio 2010, riguardano in particolare l’obbligo di indicazione dell’origine estera sui prodotti non fabbricati in Italia (apposizione della dicitura “Made in...” accompagnata dal paese estero di produzione). Essa, secondo i giudici della Suprema Corte, si rendebbe necessaria solo quando un dato marchio viene utilizzato con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che un certo prodotto sia di origine italiana.

Tale obbligo inoltre, non necessariamente implica la necessità di indicare in maniera esplicita il Paese in cui è avvenuta la fabbricazione del prodotto in questione, essendo sufficiente l’apposizione sullo stesso di una serie di indicazioni di per sé idonee ad eliminare ogni possibilità di fraintendimento del consumatore riguardo la sua effettiva origine (estera), od ancora, l’accompagnamento del prodotto con un’attestazione con la quale ci si assume l’impegno che ulteriori informazioni relative alla sua effettiva origine estera verranno rese durante la fase di commercializzazione.

In ogni caso, la mancanza di tutte tali informazioni non costituisce reato, ma semplice illecito amministrativo, in relazione al quale non è possibile attivare nè il sequestro probatorio (artt. 253 c.p.p. e seguenti) - misura finalizzata alla ricerca della prova - nè il sequestro preventivo (art. 321 c.p.p. e seguenti) - misura volta a prevenire il pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso, ovvero agevolare la commissione di altri reati. Tali misure infatti richiedono, ai fini della loro attivabilità, la sussistenza di un'ipotesi delittuosa.

Il caso di specie riguardava un’importazione in Italia di camicie a marchio italiano (“Romeo Gigli”), prodotte in Serbia, ma con tessuto inviato dall’Italia. Le merci erano state sequestrate in dogana perchè prive dell’indicazione “Made in Serbia”, in quanto recanti l'indicazione "prodotto e distribuito da ...", seguito dal nome della ditta italiana.

La sentenza indirettamente conferma, come da noi più volte affermato (vedasi il nostro articolo a proposito dell'ultima legge, in ordine di tempo, a tutela del "made in"), che ove l’Italia dovesse imporre unilateralmente (a differenza cioè di quanto avviene negli altri Stati membri dell’UE, che non lo fanno), l’obbligatoria indicazione dell’origine per tutti i beni prodotti all’estero, si configurerebbe una violazione del principio di libera circolazione delle merci, venendo a costituire tale pratica una vera e propria misura di effetto equivalente ad una restrizione quantitativa agli scambi intracomunitari, contraria al diritto comunitario.